Divina Commedia / Inferno / Canto XII
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Canto XII Inferno

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Riassunto

Il canto dodicesimo dell'Inferno di Dante Alighieri si svolge nel primo girone del settimo cerchio, sul fiume Flegetonte, ove sono puniti i violenti contro il prossimo; siamo all'alba del 9 aprile 1300 (Sabato Santo), o secondo altri commentatori del 26 marzo 1300.

Dante e Virgilio si incamminano attraverso la sassosa frana, per raggiungere il settimo cerchio dei violenti. Ma in un anfratto nascosto se ne sta disteso il Minotauro, deciso ad impedire il passaggio. Le parole di Virgilio, che ricordano al mostro l’umiliante sconfitta per opera di Teseo e di Arianna, lo infuriano di una rabbia bestiale e gli fanno distogliere l’attenzione; Dante può così cogliere l’occasione per vincere l’ostacolo. Dante procede pensiero e Virgilio gli anticipa la spiegazione della frana, originata dal terremoto avvenuti alla morte di Cristo in croce; lo invita, alla fine, a spingere lo sguardo nella pianura che si stende ai loro piedi solcata dal tortuoso Flagetonte, rossastro e bollente. Qui sono sprofondati i violenti contro il prossimo e su di loro, armati, vigilano i centauri. Tre di essi si staccano dagli altri e corrono prontamente contro i due intrusi. Virgilio si rifiuta di rispondere all’impetuoso Nesso; a Chirone, il centauro saggio, Virgilio rivela la natura provvidenziale del viaggio intrapreso e chiede soccorso per traghettare Dante sul Flagetonte.

Parafrasi

Era lo loco ov'a scender la riva
venimmo, alpestro e, per quel che v'er'anco,
tal, ch'ogne vista ne sarebbe schiva.
Il luogo in cui giungemmo per scendere lungo il dirupo era scosceso e, per di più a causa di ciò che in esso si trovava (il Minotauro), tale, che ogni sguardo lo avrebbe evitato.
 
Qual è quella ruina che nel fianco
di qua da Trento l'Adice percosse,
o per tremoto o per sostegno manco,
Quale è la frana che a valle di Trento colpì in una delle sue rive l’Adige, o a causa di un terremoto o per l’erosione del terreno sottostante,
 
          che da cima del monte, onde si mosse,
          al piano è sì la roccia discoscesa,
          ch'alcuna via darebbe a chi sù fosse:
in modo che il pendio dalla vetta della montagna, dalla quale la frana si staccò, alla pianura è così inclinato, da offrire una via di discesa a chi si trovasse in alto,
   

cotal di quel burrato era la scesa;
e 'n su la punta de la rotta lacca
l'infamia di Creti era distesa

tale era la discesa di quel burrone; e nella parte superiore della Costa franata giaceva distesa la vergogna, dei Cretesi
 
che fu concetta ne la falsa vacca;
e quando vide noi, sé stesso morse,
sì come quei cui l'ira dentro fiacca.
che fu concepita nella finta vacca; e quando ci vide, morse se stesso, come colui che è sopraffatto internamente dall’ira.
   
Lo savio mio inver' lui gridò: «Forse
tu credi che qui sia 'l duca d'Atene,
che sù nel mondo la morte ti porse?
Il mio saggio maestro gli si rivolse gridando: " Pensi forse di trovarti in presenza del signore d’Atene, che sulla terra ti diede la morte?
   

Pàrtiti, bestia: ché questi non vene
ammaestrato da la tua sorella,
ma vassi per veder le vostre pene».

Allontanati, bestia: costui non giunge infatti guidato da tua sorella, ma si reca a vedere i vostri tormenti".
   

Qual è quel toro che si slaccia in quella
c'ha ricevuto già 'l colpo mortale,
che gir non sa, ma qua e là saltella,

Come fa il toro che si scioglie dai nodi che lo legano nell’istante in cui, mortalmente colpito, non è più capace di camminare, ma barcolla qua e là,
   

vid'io lo Minotauro far cotale;
e quello accorto gridò: «Corri al varco:
mentre ch'e' 'nfuria, è buon che tu ti cale».

   

Così prendemmo via giù per lo scarco
di quelle pietre, che spesso moviensi
sotto i miei piedi per lo novo carco.

   

Io gia pensando; e quei disse: «Tu pensi
forse a questa ruina ch'è guardata
da quell'ira bestial ch'i' ora spensi.

   

Or vo' che sappi che l'altra fiata
ch'i' discesi qua giù nel basso inferno,
questa roccia non era ancor cascata.

   

Ma certo poco pria, se ben discerno,
che venisse colui che la gran preda
levò a Dite del cerchio superno,

   

da tutte parti l'alta valle feda
tremò sì, ch'i' pensai che l'universo
sentisse amor, per lo qual è chi creda

   

più volte il mondo in caòsso converso;
e in quel punto questa vecchia roccia
qui e altrove, tal fece riverso.

   

Ma ficca li occhi a valle, ché s'approccia
la riviera del sangue in la qual bolle
qual che per violenza in altrui noccia».

   

Oh cieca cupidigia e ira folle,
che sì ci sproni ne la vita corta,
e ne l'etterna poi sì mal c'immolle!

   

Io vidi un'ampia fossa in arco torta,
come quella che tutto 'l piano abbraccia,
secondo ch'avea detto la mia scorta;

   

e tra 'l piè de la ripa ed essa, in traccia
corrien centauri, armati di saette,
come solien nel mondo andare a caccia.

   

Veggendoci calar, ciascun ristette,
e de la schiera tre si dipartiro
con archi e asticciuole prima elette;

   

e l'un gridò da lungi: «A qual martiro
venite voi che scendete la costa?
Ditel costinci; se non, l'arco tiro».

   

Lo mio maestro disse: «La risposta
farem noi a Chirón costà di presso:
mal fu la voglia tua sempre sì tosta».

   

Poi mi tentò, e disse: «Quelli è Nesso,
che morì per la bella Deianira
e fé di sé la vendetta elli stesso.

   

E quel di mezzo, ch'al petto si mira,
è il gran Chirón, il qual nodrì Achille;
quell'altro è Folo, che fu sì pien d'ira.

   

Dintorno al fosso vanno a mille a mille, saettando qual anima si svelle
del sangue più che sua colpa sortille».

   

Noi ci appressammo a quelle fiere isnelle:
Chirón prese uno strale, e con la cocca
fece la barba in dietro a le mascelle.

   

Quando s'ebbe scoperta la gran bocca,
disse a' compagni: «Siete voi accorti
che quel di retro move ciò ch'el tocca?

   

Così non soglion far li piè d'i morti».
E 'l mio buon duca, che già li er'al petto,
dove le due nature son consorti,

   

rispuose: «Ben è vivo, e sì soletto
mostrar li mi convien la valle buia;
necessità 'l ci 'nduce, e non diletto.

   

Tal si partì da cantare alleluia
che mi commise quest'officio novo:
non è ladron, né io anima fuia.

   

Ma per quella virtù per cu' io movo
li passi miei per sì selvaggia strada,
danne un de' tuoi, a cui noi siamo a provo,

 

e che ne mostri là dove si guada
e che porti costui in su la groppa,
ché non è spirto che per l'aere vada».

   

Chirón si volse in su la destra poppa,
e disse a Nesso: «Torna, e sì li guida,
e fa cansar s'altra schiera v'intoppa».

   

Or ci movemmo con la scorta fida
lungo la proda del bollor vermiglio,
dove i bolliti facieno alte strida.

   

Io vidi gente sotto infino al ciglio;
e 'l gran centauro disse: «E' son tiranni
che dier nel sangue e ne l'aver di piglio.

   

Quivi si piangon li spietati danni;
quivi è Alessandro, e Dionisio fero,
che fé Cicilia aver dolorosi anni.

   

E quella fronte c'ha 'l pel così nero,
è Azzolino; e quell'altro ch'è biondo,
è Opizzo da Esti, il qual per vero

   

fu spento dal figliastro sù nel mondo».
Allor mi volsi al poeta, e quei disse:
«Questi ti sia or primo, e io secondo».

   

Poco più oltre il centauro s'affisse
sovr'una gente che 'nfino a la gola
parea che di quel bulicame uscisse.

   

Mostrocci un'ombra da l'un canto sola,
dicendo: «Colui fesse in grembo a Dio
lo cor che 'n su Tamisi ancor si cola».

   

Poi vidi gente che di fuor del rio
tenean la testa e ancor tutto 'l casso;
e di costoro assai riconobb'io.

   

Così a più a più si facea basso
quel sangue, sì che cocea pur li piedi;
e quindi fu del fosso il nostro passo.

   

«Sì come tu da questa parte vedi
lo bulicame che sempre si scema»,
disse 'l centauro, «voglio che tu credi

   

che da quest'altra a più a più giù prema
lo fondo suo, infin ch'el si raggiunge
ove la tirannia convien che gema.

   

La divina giustizia di qua punge
quell'Attila che fu flagello in terra
e Pirro e Sesto; e in etterno munge

   

le lagrime, che col bollor diserra,
a Rinier da Corneto, a Rinier Pazzo,
che fecero a le strade tanta guerra».

   
Poi si rivolse, e ripassossi 'l guazzo.
 

Commento

La violenza è il tema dominante dell'episodio e ciò è evidente fin dall'inizio, con la comparsa del Minotauro. Il mostro, per metà uomo e per metà toro, è simbolo della violenza che è il peccato di chi, pur dotato di ragione umana, si è abbandonato a istinti bestiali e ha arrecato danno al prossimo, nella persona fisica o nei beni. Il Minotauro, che probabilmente è custode di tutto il VII Cerchio e non solo del primo girone dove sono puniti assassini e predoni, tenta di ostacolare il passaggio dei due poeti come altre figure demoniache già viste in precedenza, ma è ammansito da Virgilio che gli ricorda la morte inflittagli da Teseo nel mondo. Il maestro spiega inoltre a Dante che la causa del crollo rovinoso dove i due devono scendere è il terremoto che scosse tutta la Terra il giorno della morte di Cristo, mentre non c'era ancora quando lui passò di lì la prima volta, evocato dalla maga Eritone (il fatto avvenne poco dopo la morte di Virgilio, quindi ben prima della nascita del Messia). Lo stesso terremoto causò anche il crollo dei ponti che congiungono la V alla VI Bolgia dell'VIII Cerchio, e forse della ruina descritta nel II Cerchio.

I veri custodi del primo girone sono in realtà i centauri, altre creature del mito classico che, al pari del Minotauro, condividono natura umana e bestiale. Se nell'antichità erano considerati esseri saggi e sapienti (Chirone fu ad esempio il precettore di Achille), nel Medioevo erano invece spesso demonizzati per la loro immagine di cacciatori armati di arco e frecce, che li accostava a certe immagini di cacciatori diabolici di cui ci sono vari esempi nell'iconografia cristiana.

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